Dagli Appennini ai Monti Cardamomi

Una delle tappe che già in Italia consideravamo irrinunciabili per questo viaggio accinghialato in Cambogia è il villaggetto di Osoam, sui Monti Cardamomi. Un po’ per la descrizione del Osoam Community Center, un po’ perché per vari motivi l’attraversamento da Pursat a Koh Kong poteva essere l’unica effettiva possibilità di un contatto più diretto con i cambogiani e per un pizzico di avventura in più.

Devo dire che non posso proprio lamentarmi. La strada per i monti Cardamomi dal lato di Pursat nella “wet season” è praticamente un fiume di fango. Tra ottobre e novembre, quando la stagione delle piogge comincia a cedere il passo a un clima più asciutto, è comunque una strada impercorribile per qualsiasi mezzi a 4 ruote. Neppure i pick-up che normalmente la sfangano, letteralmente, sul lato opposto sono in grado di affrontare le buche lasciate da pioggia e supertrattori con ruote più alte di me a braccia alzate. L’unico modo è salire in moto-taxi, ovvero abbrancati a un poveraccio che in sella a uno scooter trasporta gente su e giù per la montagna con tragitti che arrivano a superare le tre ore.

In questa foto si vede il finale “buono” di uno dei punti più tremendi che abbiamo superato. Qui siamo quasi alla fine del percorso  e ci siamo arrivati dopo vari punti fatti scendendo di moto e salendo a piedi. Per la cronaca, il tipo di spalle fa parte di un gruppo di motociclisti del luogo che ha mezzo team impantanato nell’avvallamento della strada. Il povero cristo sta cercando di capire se due suoi amici ce la possono fare a disincagliare la moto da mezzo metro di poltiglia rossa o se sarà necessario estrarli a braccia o a traino. Fortunatamente li vedremo spuntare una mezzoretta dopo coperti di fango e con le moto ridotte a un blocco di mattaione.

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Siamo abbastanza convinti che se non avessimo fatto parlare i nostri driver con il mitico Lim, col cavolo che ci avrebbero portato a destinazione. Qui è  tutta una grande famiglia.
Lasciata la fanghiglia rossa abbiamo pure fatto un paio di tratti su chiatta attraverso il lago. Il tutto dopo oltre due ore di guida su percorso di guerra. È un miracolo che non ci abbiano preso, zaini e tutto, e buttati a lago nel punto più profondo.

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In realtà, fatica e scossoni a parte, per noi questa ascesa è stata un divertimento. Ma noi effettivamente l’abbiamo fatta per la prima e molto probabilmente ultima volta, loro la fanno regolarmente anche in condizioni peggiori. È quando la moto non ce la fa… si va a piedi, mettendoci anche 4 giorni! O nessuno, quando le condizioni sono talmente brutte che l’unica possibilità è salire dal versante opposto, aggirando le montagne.

Quello che ci aspetta è una comunità rurale organizzata intorno al sogno di un simpatico pazzoide, ex ranger, ex autista, insegnante, contadino, muratore, meccanico… insomma, quello che mia nonna avrebbe definito “un armeggio”. Nel suo Community Center si può dormire in capanna, in amaca, in tenda, mangiare nello spazio comune i piatti preparati da sua suocera o dalle sue giovani aiutanti, lavarsi al lago o a secchiate e organizzare sortite nella giungla.

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È un posto rustico, ma proprio per questo anche molto pacifico. Ci bazzicano le guide che Lim cerca di istruire al rapporto col turista europeo, i ragazzi a cui cerca di insegnare l’inglese, ci vive Nick, un motociclista australo-cockney che organizza tour in moto (per gente tosta, qui non si scherza), ci arrivano dal nulla ciclisti tedeschi cinquantenni con l’hobby della fotografia, compaiono scooteristi francesi in cerca di avventura, studenti di medicina con la passione per l’Asia e il trekking, esperti di sviluppo ambientale di passaggio… E ci approdiamo noi, improbabili e felici, che quando ci dicono che non ci sono docce ma c’è un lago prendiamo il costume e andiamo a lavarci di dosso la terra rossa della strada per ritrovarci poi sui piedi il fango rosso del lago e sfoggiarlo orgogliosi mentre guardiamo il tramonto dondolando su un amaca.

Passiamo due giorni così, in vera villeggiatura. Leggendo, scrivendo, chiacchierando con gli altri ospiti e riposandoci. La via del ritorno alla civiltà passerà da un trekking nella giungla sulla via che porta a Koh Kong.

Il ritrovo è fissato la mattina presto, ma partiamo con una puntualità cambogiana circa un’ora e meza dopo. Ad aspettarci c’è  un altro tratto  di strada rossa appollaiati sul retro di un pick-up modificato. Balzellon balzelloni attraversiamo aree disboscate punteggiate da enormi tronchi carbonizzati che spezzano il cuore e piantagioni di frutta che staccheresti volentieri al volo dai rami e arriviamo all’imbocco di un sentiero che inizialmente non sembra troppo tremendo. La nostra guida, Noy, si fa avanti a passo soedito tra la vegetazione con qualche svogliato colpo di machete e inizia a mostrarci curiosità varie e segni della fauna locale, come enormi formicai, alberi che una volta tagliati grondano acqua e segni di artigli di moon bear sugli alberi.

Per me che sono atletica comune divano di Poltone e Sofà le cose alla lunga cominciano però a complicarsi.  Anche le mie ginocchia scassate non aiutano.  Tocca mettere la ginocchiera e andare avanti. Dove non arrivano la cortezza di gamba e la leggerezza da elefante in  una cristalleria arrivano la volontà e… il farsi aiutare dai galantuomini presenti nei punti in cui la mia fobia del vuoto e il pensiero di lasciar per strada qualche altro pezzo di ginocchio mi impedivano di staccare le gambe da terra per saltare distanze razionalmente superabili. 

Alla fine arriviamo in un posto che toglie il fiato.  Un cascata da film su cui volano farfalle bellissime affette da uno strano feticismo per il colore blu. Saliamo anche da sopra,  dove il fiume scorre tra pietre piatte, probabilmente scoperte solo perchè siamo in stagione secca.  Quando piove qui sicuramente  non ci si arriva. Siamo probabilmente  uno dei primi gruppi che da Osoam ritornano in giungla dopo la stagione delle piogge.

E mentre noi lasciata alle spalle la cascata ripartiamo alla volta di Koh kong, un temerario germanico rimarrà con Noy a dormire in  giungla e ci racconterà poi di esserne uscito con morsi e punture, ma soddisfatto, nonostante ore di giri a vuoto con ritorno accidentale al campo base, dove un impassibile Noy candidamente confesserà che sì, hanno girato parecchio perché si era perso e in quella parte di giungla non ci era mai stato. I cambogiani sono così. Finisci per volergli bene anche per questo. Beata incoscienza!