Dagli Appennini ai Monti Cardamomi

Una delle tappe che già in Italia consideravamo irrinunciabili per questo viaggio accinghialato in Cambogia è il villaggetto di Osoam, sui Monti Cardamomi. Un po’ per la descrizione del Osoam Community Center, un po’ perché per vari motivi l’attraversamento da Pursat a Koh Kong poteva essere l’unica effettiva possibilità di un contatto più diretto con i cambogiani e per un pizzico di avventura in più.

Devo dire che non posso proprio lamentarmi. La strada per i monti Cardamomi dal lato di Pursat nella “wet season” è praticamente un fiume di fango. Tra ottobre e novembre, quando la stagione delle piogge comincia a cedere il passo a un clima più asciutto, è comunque una strada impercorribile per qualsiasi mezzi a 4 ruote. Neppure i pick-up che normalmente la sfangano, letteralmente, sul lato opposto sono in grado di affrontare le buche lasciate da pioggia e supertrattori con ruote più alte di me a braccia alzate. L’unico modo è salire in moto-taxi, ovvero abbrancati a un poveraccio che in sella a uno scooter trasporta gente su e giù per la montagna con tragitti che arrivano a superare le tre ore.

In questa foto si vede il finale “buono” di uno dei punti più tremendi che abbiamo superato. Qui siamo quasi alla fine del percorso  e ci siamo arrivati dopo vari punti fatti scendendo di moto e salendo a piedi. Per la cronaca, il tipo di spalle fa parte di un gruppo di motociclisti del luogo che ha mezzo team impantanato nell’avvallamento della strada. Il povero cristo sta cercando di capire se due suoi amici ce la possono fare a disincagliare la moto da mezzo metro di poltiglia rossa o se sarà necessario estrarli a braccia o a traino. Fortunatamente li vedremo spuntare una mezzoretta dopo coperti di fango e con le moto ridotte a un blocco di mattaione.

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Siamo abbastanza convinti che se non avessimo fatto parlare i nostri driver con il mitico Lim, col cavolo che ci avrebbero portato a destinazione. Qui è  tutta una grande famiglia.
Lasciata la fanghiglia rossa abbiamo pure fatto un paio di tratti su chiatta attraverso il lago. Il tutto dopo oltre due ore di guida su percorso di guerra. È un miracolo che non ci abbiano preso, zaini e tutto, e buttati a lago nel punto più profondo.

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In realtà, fatica e scossoni a parte, per noi questa ascesa è stata un divertimento. Ma noi effettivamente l’abbiamo fatta per la prima e molto probabilmente ultima volta, loro la fanno regolarmente anche in condizioni peggiori. È quando la moto non ce la fa… si va a piedi, mettendoci anche 4 giorni! O nessuno, quando le condizioni sono talmente brutte che l’unica possibilità è salire dal versante opposto, aggirando le montagne.

Quello che ci aspetta è una comunità rurale organizzata intorno al sogno di un simpatico pazzoide, ex ranger, ex autista, insegnante, contadino, muratore, meccanico… insomma, quello che mia nonna avrebbe definito “un armeggio”. Nel suo Community Center si può dormire in capanna, in amaca, in tenda, mangiare nello spazio comune i piatti preparati da sua suocera o dalle sue giovani aiutanti, lavarsi al lago o a secchiate e organizzare sortite nella giungla.

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È un posto rustico, ma proprio per questo anche molto pacifico. Ci bazzicano le guide che Lim cerca di istruire al rapporto col turista europeo, i ragazzi a cui cerca di insegnare l’inglese, ci vive Nick, un motociclista australo-cockney che organizza tour in moto (per gente tosta, qui non si scherza), ci arrivano dal nulla ciclisti tedeschi cinquantenni con l’hobby della fotografia, compaiono scooteristi francesi in cerca di avventura, studenti di medicina con la passione per l’Asia e il trekking, esperti di sviluppo ambientale di passaggio… E ci approdiamo noi, improbabili e felici, che quando ci dicono che non ci sono docce ma c’è un lago prendiamo il costume e andiamo a lavarci di dosso la terra rossa della strada per ritrovarci poi sui piedi il fango rosso del lago e sfoggiarlo orgogliosi mentre guardiamo il tramonto dondolando su un amaca.

Passiamo due giorni così, in vera villeggiatura. Leggendo, scrivendo, chiacchierando con gli altri ospiti e riposandoci. La via del ritorno alla civiltà passerà da un trekking nella giungla sulla via che porta a Koh Kong.

Il ritrovo è fissato la mattina presto, ma partiamo con una puntualità cambogiana circa un’ora e meza dopo. Ad aspettarci c’è  un altro tratto  di strada rossa appollaiati sul retro di un pick-up modificato. Balzellon balzelloni attraversiamo aree disboscate punteggiate da enormi tronchi carbonizzati che spezzano il cuore e piantagioni di frutta che staccheresti volentieri al volo dai rami e arriviamo all’imbocco di un sentiero che inizialmente non sembra troppo tremendo. La nostra guida, Noy, si fa avanti a passo soedito tra la vegetazione con qualche svogliato colpo di machete e inizia a mostrarci curiosità varie e segni della fauna locale, come enormi formicai, alberi che una volta tagliati grondano acqua e segni di artigli di moon bear sugli alberi.

Per me che sono atletica comune divano di Poltone e Sofà le cose alla lunga cominciano però a complicarsi.  Anche le mie ginocchia scassate non aiutano.  Tocca mettere la ginocchiera e andare avanti. Dove non arrivano la cortezza di gamba e la leggerezza da elefante in  una cristalleria arrivano la volontà e… il farsi aiutare dai galantuomini presenti nei punti in cui la mia fobia del vuoto e il pensiero di lasciar per strada qualche altro pezzo di ginocchio mi impedivano di staccare le gambe da terra per saltare distanze razionalmente superabili. 

Alla fine arriviamo in un posto che toglie il fiato.  Un cascata da film su cui volano farfalle bellissime affette da uno strano feticismo per il colore blu. Saliamo anche da sopra,  dove il fiume scorre tra pietre piatte, probabilmente scoperte solo perchè siamo in stagione secca.  Quando piove qui sicuramente  non ci si arriva. Siamo probabilmente  uno dei primi gruppi che da Osoam ritornano in giungla dopo la stagione delle piogge.

E mentre noi lasciata alle spalle la cascata ripartiamo alla volta di Koh kong, un temerario germanico rimarrà con Noy a dormire in  giungla e ci racconterà poi di esserne uscito con morsi e punture, ma soddisfatto, nonostante ore di giri a vuoto con ritorno accidentale al campo base, dove un impassibile Noy candidamente confesserà che sì, hanno girato parecchio perché si era perso e in quella parte di giungla non ci era mai stato. I cambogiani sono così. Finisci per volergli bene anche per questo. Beata incoscienza!

Battambang e dintorni

Battambang è la terza città della Cambogia e secondo le guide ha una romantica atmosfera coloniale. Dove risieda questo lato boho decadentista sinceramente non lo abbiamo capito.  Quello che ha questa città è piuttosto una certa vivacità culturale e gastronomica che ci ha dato inaspettate soddisfazioni. Anche fare gli scemi sugli attrezzi ginnico pubblici, a dire il vero… ma siamo gente semplice e ci divertiamo con poco. 20181101_150226

I dintorni di Battambang offrono qualche gita piacevole, ma è inevitabile che dopo la nostra maratona di Siem Reap il tempietto locale ci faccia quasi tenerezza. È pieno di fiori bellissimi, però, e anche insoliti. Non  sapevamo che in Cambogia si trovassero i girasoli. Il gigantesco Budda scrostato è invece una visione inquietante. Ti aspetti quasi che prenda vita come l’omino Michelin di Ghostbusters.

Insomma,  le principali attrattive cittadine, tempietto a parte, per noi si sono riassunte prosaicamente in  un paio di buoni ristoranti, un negozio di pietre e cristalli e un massaggio khmer. E no, del trenino di bambù non ce ne poteva fregare di meno.

Già che ci siamo, apriamo una breve parentesi sul massaggio Khmer ad uso dei temerari che volessero tentare l’esperienza. Il massaggio khmer è pesante. A tratti doloroso. Non prevede oli ma una specie di pigiamino che non copre tutto il corpo e che non evita comunque di uscire con i lividi lasciati da impastamenti profondi se disgraziatamente si ha la pelle delicata.  Però funziona. A fine seduta si sentono i benefici. A voi decidere. A me una volta è bastato. Che poi, così piccole, dove la trovano tanta forza? Per quanto mi riguarda esperienza fatta, ma non ripetibile. Ci sono tecniche altrettanto efficaci che non ti fanno sentire come un manzo di Kobe messaggiato a legnate. Chiusa parentesi.

Una interessante escursione dalla zona di Battambang è invece quella al Beantey Chhmar.

Si,  un altro tempio! Ce li vogliamo vedere tutti! Soprattutto quelli che somigliano al Ta Prohm.

A dire il vero non è vicinissimo. Per arrivarci dobbiamo prendere un taxi. Avevamo previsto collegamenti migliori e più economici, ma la strada è in rifacimento (come tutte le strade cambogiane a dire il vero) e  per una volta ci concediamo il lusso della macchina con autista come i turisti VIP.

Il tempio è abbastanza isolato e assolutamente deserto. La media dei 6 visitatori al giorno ci pare decisamente veritiera. A parte i giovani del luogo che fanno le vasche in motorino lungo i vialetti esterni, avremo visto si e no altre quattro persone. E due probabilmente passavano di lì per caso.


I bassorilievi superstiti sono belli e fanno scattare il giochino “conta le braccia e indovina chi é”.
Il confine tra divinità e mostro qui è un po’ labile.
La palma indiscussa la vince comunque lei. Mostro o moderna eroina al servizio del progresso? Comunque abbiamo deciso: il prossimo costume per Halloween è quello di addetta al traffico sulla via per Battambang.

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Alla ricerca del tempio perduto: Beng Mealea e Rolous Group

Missione del giorno: esplorazione ad ampio raggio.

Scortati dal nostro fido driver i nostri eroi cercheranno di arrivare al Beng Mealea, un tempio esterno ai circuiti di Angkor Wat. Questo, nelle  intenzioni,  dovrebbe consentirci di godere di qualche piacevole scorcio delle campagne locali, cosa che solletica il nostro animo bucolico e grufolante.

Qualche scorcio… molti scorci… una scorciatoia? Ma dove diamine siamo?!
Sono due ore che giriamo per strade secondarie sterrate e deserte. Il nostro fido driver ci guarda sornione e sorride.

Ok, ci siamo persi!

Quello che inizialmente poteva essere un dubbio da occidentali malfidati diventa certezza al terzo contadino che viene fermato per chiedere informazioni. Tre camionisti e un motociclista dopo, arriviamo finalmente alla strada principale e (finalmente) a destinazione.

La prima cosa che facciamo è ovviamente cercare la toilet. Dopodiché ci dedichiamo alla visita, non senza aver astutamente aggirato una mezza dozzina di stand di souvenir con annessa commessa d’assalto. Grido di battaglia “Madaaaam”. Potenza: un fragore da mille decibel classe Mazzinga!

20181029_103630I nostri iniziali propositi di non trovarsi in un tempio nelle ore più calde, però, si sono letteralmente persi per strada. Beviamo più acqua noi che benzina una Ferrari. Il Beng Mealea per nostra fortuna si rivela un tempio fresco e anche un tantinello paludoso, come ci dimostra la fauna che zampetta tra l’erbetta. Sopravviveremo nonostante il clima avverso e il territorio ostile. I battaglioni di moscerini non ci avranno.  Le scorte di repellente fanno il loro porco dovere.

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Tra nuvole di citronella chimica e sudore ci apriamo la strada su un percorso di passerelle in legno dalla logica ignota e finiamo per trovarci a rimirare l’infinito su quello che doveva essere un muro di cinta del tempio, sotto lo sguardo divertito di un anziano sorvegliante saldamente appostato sull’amaca di ordinanza. Quando scendiamo, il baldo giovanotto ci sorride e ci chiede di dove siamo. “Oh Italy! Ciao!” Ci saluta fiero. Rispondiamo con un sorriso anche noi. Lui almeno non ci ha chiesto se siamo spagnoli. L’onore è salvo.

Ma un solo tempio in una giornata è una ben magra conquista! Forti della nostra determinazione e di una buona dose di crema solare costringiamo il  nostro non proprio convinto chauffeur a portarci anche a vedere i templi del gruppo di Rolous. L’operazione sembra parergli superflua, tanto che più volte inizierà a cantilenarci “temple, temple”, stupito forse dal nostro stacanovismo turistico e dalla nostra inflessibilita nell’evitare la trappola della bevanda con ghiaccio.

I due templi minori Preah Ko e Lolei, sono carini, ma effettivamente poco imponenti e anche trasandati. In uno veniamo addirittura incastrati in una specie di visita a una scuola nel tentativo di chiederci la solita donazione alla fine. Il ragazzo che ci aggancia parrebbe pure uno studente volontario, ma la sensazione di essere visti  come portafogli  con le gambe è disturbante. Il dubbio che i pargoli siano usati come specchietto per le allodole lo è ancora di più. Prendiamo il volantino dell’ONG di turno  con scarsa convinzione e ci allontaniamo riservandoci improbabili operazioni di intelligence, sia mai che sia una ONG di quelle vere.

L’ultimo tempio del trio, il Bakong, è invece molto più  interessante e ci accoglie proprio nelle ore in cui la luce ed i colori sono più belli. È un  tempio con struttura a montagna, ergo…tocca salire. Ormai ci siamo abituati. Qui o sali, o saltelli tra i pietroni sconnessi o ti destreggi su precarie strutture in legno degne della palestra di Kung Fu Panda.20181029_154434 Scarpinare fino alla cima è la solita faticaccia su scalini improbabili, ma tornare a riposarsi all’ombra dei tamarindi prima di ripartire ci lascia un certo senso di soddisfazione.

Missione compiuta. Si torna alla base.

Il big circle a modo nostro

Dopo esserci concessi una giornata di pausa dalla maratona angkoriana, il nostro tour prosegue verso uno dei templi più distanti del Big Circle. Un tempio dedicato al femminile, il Beantey Srei, noto anche come Lady Temple (che mi suona male, ma del genitivo sassone da queste parti ancora non è giunta notizia, come pure di diverse preposizioni e coniugazioni verbali). Perché lo chiamano così? Ma perché anche il più grande dei re alla fine vuole tanto, tanto bene alla sua mammina e siccome è un bravo figliolo per la festa della mamma, invece di fare uno dei soliti lavoretti con la colla vinilica che poi nessuno sa dove nascondere, tanto sono imbarazzanti, decide di dedicare a mammà uno dei templi vicino casa! Pratico, economico e di facile manutenzione.20181028_121219

La mattinata parte male. Il tipo con cui ci eravamo accordati per il trasporto non si palesa e non risponde a telefono. Dopo una neanche troppo breve attesa decidiamo di far intervenire i nostri fidi hostel boys che alla fine lo agganciano e, pur con ritardo, ci fanno pervenire il sospirato tuk tuk.

Il nostro driver pare non sapere che è più di un’ora che lo aspettiamo e ci liquida con un asiatico sorriso di convenienza, di quelli che ti lasciamo un po’ in bilico tra il “non ha capito una cippalippa” e il “mi piglia per i fondelli”. Di primo acchito tendiamo a propendere più per la seconda opzione, perché a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre chi si azzecca. La giornata invece dimostrerà che, a parte il solito inglese arrabattato,  siamo capitati con un omino premuroso,  pronto a salvarci dalla calura con ghiacciaia e salviette fresche.

20181029_100609Maciniamo parecchia strada e innumerevoli buche,  ma alla fine il Beantey Srei si materializza all’orizzonte, annunciato da un meraviglioso laghetto pieno di fiori di loto.  Non facciamo in tempo ad arrivare che Giotto attacca bottone con un sorvegliante che ci propone un tour guidato. Il suo cinghialesco fiuto non coglie il fatto che il tizio sta offrendo servigi altrui. Ci ritroviamo con un altro tizio tutto sommato bravino, ma chiaramente dedito ad altro mestiere. Dal codice colore della camicia ipoyizziamo che sia un diverso tipo di sorvegliante. Poco male. Ci costa meno della guida di Angkor Wat, parla relativamente meglio e alla fine ne usciamo con qualche informazione utile.20181028_122603

Risolto il problema festa della mamma, il magnifico sovrano dal nome impronunciabile deve aver realizzato che dedicare templi è un regalo che spacca e gli fa aumentare i punti sul carisma e quindi… che non lo dedichi un tempio pure a babbo? Mica vorrai che ci resti male!

Eccoci dunque al Preah Kahn, controparte maschile del Beantey Srei.

20181028_143114Il tempio è spettacolare e un po’ arcigno nel suo complesso. Decisamente in contrasto con la leggerezza dei bassorilievi della sua controparte femminile. È un tempio guerriero in cui spiccano alcuni scorci veramente spettacolari. Come sempre, ci perdiamo a zonzo tra le rovine e ci passiamo le nostre solite due ore più
della media. L’unico motivo per andarcene è che ci sono altre cose da vedere e qui alle 17.01 tutto chiude e tutti si dileguano.

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Lasciamo a malincuore il Preah Kahn per cercare di arrivare alla postazione scelta per guardarci il tramonto. Si perchè rimirar tramonti qui è uno sport nazionale e anche un discreto business. Lungo la strada infiliamo comunque una breve ma deliziosa sosta a un chicchino di tempietto, il Neak Pean, a cui si arriva attraverso una stretta passerella in legno sul baray. Ci arriviamo in un momento di grazia in cui non c’è quasi nessuno. Sommo gaudio!

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Mentre ripercorriamo la passerella per andarcene ci rendiamo conto di aver avuto di fatto una botta di indiscusso fondoschiena. La temuta comitiva cinese, incubo di ogni viaggiatore, ci marcia incontro compatta in fila per sei col resto di due.

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Sfuggiti con destrezza all’incubo di questo fiume umano ci facciamo scarrozare con viva e vibrante soddisfazione verso la nostra ultima tappa, con l’idea di guardarci un bel tramonto sui templi.

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In realtà la visuale dalla cima del Preah Rup non spazia come speravamo su altre costruzioni in lontananza, ma la vista sulla folta vegetazione è comunque piacevole. Scendiamo che è quasi buio e veniamo riportate in ostello senza colpo ferire. Alla fine,  vista la pazienza dimostrata con i nostri tempi biblici e le premure del nostro chauffeur, che ci ha a suo modo coccolato per un giorno,  decidiamo di concordare un giro ancora più lungo per il giorno seguente.  Non sappiamo chi è più pazzo tra lui e noi… È va bene così!

In barca sul Tonle Sap

La tipica casa cambogiana nella zona del Tonle Sap è un bungalow rialzato da terra tipo palafitta o ha comunque un piano terra praticamente vuoto, giusto per far capire quello che deve essere il suolo nella stagione delle piogge. Praticamente qui arrivano a casa a guado… sempre che siano riusciti a uscirne. Poi ci sono anche quelli che vivono proprio sull’acqua.

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Si tratta degli abitanti dei famosi villaggi galleggianti del Tonle Sap, che in realtà sono semmai villaggi su palafitte, ma tant’è, sempre sull’acqua sono e decidiamo che in fondo meritano una visita, tanto per spezzare la maratona di templi che abbiamo in mente di fare.

Dopo aver vagliato varie possibilità di arrivarci con mezzi autonomi decidiamo che il modo più semplice per fare un giro in uno dei villaggi su palafitte del Tonle Sap è aggregarsi ad una gita organizzata di quelle che partono tutti i giorni. La scelta si rivela felice, se non altro perché finalmente agganciamo una guida in grado di parlare un inglese più che dignitoso. Finalmente possiamo fare qualche domanda e sperare in una risposta.

La nostra guida si presenta come Cherry. Sicuramente un soprannome per farsi ricordare dai turisti… e funziona. Il Cherry bus diventa il nostro punto di riferimento. Ci immedesimiamo nel nostro ruolo di pecorelle dietro al pastore e raggiungiamo il lago, dove le barche sono ora tutte parte di un consorzio, lavorano a rotazione e non si può scegliere con chi andare. Come ci avverte Cherry “sometimes we get a crazy boat”. Ma anche stavolta abbiamo fortuna. Il nostro giovane barcaiolo non parla molto, ma fa il suo dovere. La barca barcolla ma non molla e piano piano ci porta ondeggiando verso Kompong Pluk.

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La prima sensazione è che il villaggio sia più grande di quanto pensavamo. Ci aspettavamo tre casette in croce, invece le costruzioni sul palafitte sono parecchie. Le casette sull’acqua appartengono soprattutto a vietnamiti, che in Cambogia pare non possano possedere terra. Qualcuna è anche particolarmente carina, con fiori e decorazioni, altre … no!

Tra le costruzioni sull’acqua si fanno notare una scuola, un ospedale e c’è pure una chiesa, opera di un missionario che per un paio d’anni ha cercato di evangelizzare il villaggio. Porello! Questi già mischiano due religioni, gli ci mancavi giusto te con la terza!

Dopo un giretto lungo il canale principale approdiamo all’isoletta con tempio e scuola. Cherry ci mette in guardia su possibili tentativi di farci comprare libri e penne per i bambini. “Non ci cascate. Ormai di penne e quaderni ne hanno anche troppi. Non ne hanno bisogno. Ma c’è sempre chi ci prova.”

Tesoro, da noi c’è gente che vende monumenti e autostrade… figuriamoci se ci impressiona un po’ di cancelleria!

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Come da programma del tour scatta anche il giro per la foresta allagata, gestito dal secondo consorzio del villaggio, quello delle donne. Una lobby in camicia a fiori e cappellino con parapolvere, immancabile accessorio di ogni cambogiana doc, anche di quelle acquatiche.
Ci saranno una quarantina di donne di varie età. Alcune ti portano in giro, altre stazionano su barche-negozio e tentato anche loro di convincerti a comprare da bere o prender banane per le scimmie. Ok, un po’ di circo per turisti ce lo dovevamo aspettare, ma in fondo è anche abbastanza contenuto. Il giro tutto sommato è piacevole. Gli alberi sommersi suggestivi. Siamo Non finiamo in acqua cercando di scendere dalla barca quindi… tutto alla grande!

Riconosco anche una piantina acquatica che avevo comprato anni fa a ben 8 Euro e che in pratica qui é la gramigna di zona. Buffo come cambia il valore delle cose con la distanza.

Lasciandoci alle spalle il bar galleggiante, passiamo oltre per andare a vedere il tramonto sul lago insieme ad altre tremila imbarcazioni. Per motivi ignoti i colori in foto sono spettacolari. Dal vivo… normali.

Misteri della fotocamera del mio cellulare.

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È mentre tutti fanno foto, il nostro capitano cede il posto a qualcuno con più esperienza e va a riposarsi a prua prima di riaccompagnarci verso la terraferma e il nostro cherry-bus.

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I templi di Angkor: Angkor Wat e Ta Prhom

Ci siamo. Inizia la nostra personale maratona di  Siem Reap.

La prima tappa della nostra visita è lui: Angkor Wat!

Inutile dire che una delle motivazioni che ci hanno portato in Cambogia è proprio visitare questo luogo di cui si narrano meraviglie. Avrei voluto venirci qualche anno fa, quando c’erano meno restrizioni e soprattutto meno comitive. Egoisticamente un luogo così mi piacerebbe vederlo deserto. Solo io, lui e Giottino. Al massimo un altro paio di persone, giusto per farsi scattare qualche foto.

Ovviamente non è possibile, anzi, per entrare al complesso di Angkor si trovano vari check point dove guardie in camicia rosa (bleah, rosa!!!) controllano i biglietti dei turisti stranieri. L’unica volta che abbiamo dimenticato di fermarci siamo stati richiamati all’ordine dai berci dei guardiani. A una rocambolesca inversione a U su strada trafficata sono seguite debite e profonde scuse del nostro giovane conducente, che si era scordato la sosta di rito e deve essere stato infamato a dovere… Oppure no, faceva il contrito e mi ha fatto un antani, ma recitato bene. Tanto… e chi lo capisce il cambogiano!

Ma che ce frega. Siamo all’altro capo del mondo e stiamo una favola. Come diceva il prode Ceccherini: “Gli fa una seba la pioggia all’uomo ragno!” E noi siamo arrivati finalmente alla mèta. O meglio… davanti alla mèta.

Al tempio ci arriviamo infatti da una passerella galleggiante e rimbalzina che permette di attraversare il fossato passando direttamente sull’acqua e che è usata al posto dell’ingresso monumentale ormai vietato ai turisti (sob, sigh, dolore e disperazione!). Il complesso è enorme e già di mattina il corridoio di accesso rialzato è una piastra di pietre roventi che rimandano su calore e polvere. Percorrerlo sotto il sole è una mezza tortura, ma ne vale la pena. Scattano anche le foto di rito, che verranno risparmiate ai deboli di stomaco, visto che sotto il sole cocente la nostra sfattezza e l’abbigliamento da turista fai da te non sono una visione adatta alla fascia protetta.

A soffrire con noi, anzi, a guardarci soffrire, c’è una guida che fatichiamo a capire e che snocciola dati a macchinetta, ma che non sembra capire molto bene le nostre domande.  Eppure stiamo usando un basic English che più basic non si può! Ascoltando in giro ci rendiamo conto che non siamo stati molto fortunati ma poteva andare peggio. Senza infamia e senza lode. Avremmo preferito il ragazzo che accompagnava una famigliola asiatica e che si è presentato come Justin Bieber. Peccato. Ma come sopra: ma che ce frega… No, via… un po’ rosichiamo, ma nonostante qualche inciampo fonetico, qualcosa riusciamo comunque a tirarne fuori e per il resto delle domande … sia benedetta Wikipedia!

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Tra una descrizione dei bassorilievi e un giro per i vari livelli, noi che siamo notoriamente visitatori lenti, finiamo per passare una mezza giornata su e giù per i tre piani del tempio e per provarne anche le diverse toilet, esterne e interne, che contrariamente alle aspettative sono meglio di quelle di un comune autogrill italico.

All’interno fortunatamente la pietra millenaria offre un accenno di frescura, mentre saliamo scalette di legno rapidissime o gradoni misura gigante di cui non ci spieghiamo le proporzioni. Qui le porte sono basse per far inchinare il fedele di fronte al divino, è va bene, ma i gradoni da arrampicata libera? Il fedele evidentemente deve guadagnarsi l’ascesa ai piani alti, che raffigurano appunto la dimensione celeste, fingendo di scalare l’Everest. Dante a questi gli avrebbe fatto vento.

Vento… ah, benedetto sia il refolo di vento che ogni tanto ci raggiunge! Il caldo è tremendo, l’umidità si taglia a fette. Si beve e si suda, si suda e si beve, e intanto si cerca il nostro baldo driver, preso direttamente in ostello, che ci avvista prima ancora che ci sembri di essere entrati nel suo raggio visivo e ci trasmigra verso la seconda tappa dello “small circle”, il percorso tra i templi più vicini alla città e che noi abbiamo già deciso di fare in un paio di giorni con calma piutosto che in uno di corsa.

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Due cinghiali appollaiati su una delle balconate con scala a gradoni di Angkor Watt.

La famigerata seconda tappa è il meraviglioso, stupendo, decadente, verdissimo, naturalisticamente imponente Ta Prhom.

Il primo che si azzarda a chiamarlo in mia presenza “tempio di Tomb Raider” rischia una tacchettata sul mellino per aver osato accostare cotanta lussureggiante beltade a un troiaio di film. Siete avvisati.

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Il Ta Prhom è completamente diverso da Angkor Wat, che di fatto è un’opera imponente e in buone condizioni. È la San Galgano cambogiana. Con quel fascino diroccato e la natura che ha ripreso possesso dello spazio insinuandosi tra pietra e pietra. È inutile, il fascino romantico della rovina qui è elevato all’ennesima potenza, e non importa che sia un circo di turisti, ci sono angoli in cui rintanarsi e godersi la visita. Magari dietro un architrave un po’ malmesso…

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Questo tempio è la dimostrazione che per quanto ci si possa illudere di essere la specie eletta, le nostre opere prima o poi passano e madre natura si riprende ciò che è suo. I secolari, forse millenari ficus strangolatori affondano le radici nelle pietre in maniera quasi scultorea.

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Insomma, è stato amore. Negli ultimi 10 giorni abbiamo visitato altri templi, ma al Ta Prhom piace vincere facile. Non c’è storia.

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Avremmo passato anche qualche giorno a girare e abbracciare ogni singolo albero, anche a costo di scalare pietrone su pietrone, ma prima o poi qualcuno avrebbe chiamato la neuro. Ma l’amore è amore e anche un po’ pazzia, no?

Ok, siamo sinceri, anche l’opera umana non è stata da poco. Solo trasportare a dorso di elefante questi enormi blocchi di pietra e decorarli con fregi e figure qualche credito lo merita.

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E poi… anche le pietre da qualche tonnellata fanno ombra dal caldo.